RACCONTI  PERFORMATIVI

 

La fatica della vita ed il suo enigma ispirano la trama di inesauribili racconti culturali.

La parola è il modo specificatamente umano di rispondere, ribattere e reagire a tutto ciò che accade o si compie. Il linguaggio è anche la prima ed essenziale istituzione umana. "Con la parola e l'agire ci inseriamo nel mondo umano e questo inserimento è come una seconda nascita" . Comunicare e parlare riscatta dalla rassegnazione e dalla sottomissione al destino: “per questo raccontare una pena è già aver individuato metà della soluzione” (H. Arendt).

La nuova cultura della comunicazione, l'espandersi straordinario della partecipazione mediata dalle tecnologie, è il fatto determinante dell’epoca attuale. Questa nuova condizione esige non solo un aggiornamento e un riassetto superficiale delle metodologie ma un cambiamento di priorità e di paradigma nell'animazione della strada, un nuovo modo di stare insieme con le persone, che, senza trascurare il rigore del linguaggio e il senso critico che l'uso della parola stimola ed esige, raccolga la sfida delle nuove possibilità di comunicazione. La lunga e complessa storia dei linguaggi umani che si interrogano sul senso dell’esperienza umana si svolge attorno a tre nuclei epistemologici fondamentali: le forme filosofiche, estetiche e religiose. Ognuno degli ambiti è costituito da una propria autoreferenza e dalla constatazione della propria incompletezza[i] che li predispone all’integrazione e al reciproco rimando. L’antropologia contemporanea propone una visione multiprospettica dell’esperienza umana comunicata in una pluralità di mezzi culturali: il rito, il teatro, la letteratura, il cinema...

Il racconto della vita e dei drammi sociali in cui è immersa diventa ricca e complessa fino a trasformarsi in performance culturale che mentre racconta e rappresenta trasforma e rinnova. La performance estetica diventa così evento sociale.

 

1. La corruzione del codice dell’amore

La società evanescente

 Nell'amore ci si rivolge ad una particolare persona e la si considera unica, perché solo l'amore orienta alla totalità della persona. La ricerca di relazioni personali profonde cresce in intensità, quanto più estesa è la rete di comunicazioni impersonali e la richiesta di prestazioni. Più la vita è individualizzata e le responsabilità ricadono sulla solitudine dei singoli, più forte è la domanda d'amore, l'unica esperienza che personalizza, cioè conferma il valore personale dell’individuo. Il mondo sempre più competitivo alza la soglia delle "rilevanze": l'attesa che quanto si dice o si fa sia considerato e accolto come importante ed esclusivo. l bisogno insistente di "essere capiti" (dai genitori, dagli amici, dagli insegnanti…), il desiderio che qualcuno veda le cose dal punto di vista personale e lo rispetti per la semplice ragione che è il proprio, non sono richieste cognitive; sono domande d'amore.

L'insopprimibile bisogno di essere trattati come unici non può essere soddisfatto dalla distinzione della moda, ma neppure dai primati che potranno essere eguagliati, dai risultati della performance che domani saranno oltrepassati da altri. L'attesa d’amore è smisurata, perché enormi sono le sue ricompense. L'amore, però, esige reciprocità, una conquista difficile e impegnativa, una regola implacabile che rende problematica la sua normale conduzione. Nell’amore reciproco è sempre compresa una rinuncia alla ricerca esclusiva e individualistica di sé, è posto un limite alla libertà dell’autorealizzazione in favore dei legami da coltivare.

La pedagogia tradizionale aveva molto insistito su questa precondizione che era indicata con il termine "sacrificio", dal momento che è la reciprocità e non l'emozione che rende sacra la vita, che trasforma in persone l'impersonalità degli individui. Oggi l'esigenza rimane la stessa, anzi la sensibilità per i valori personali si è molto evoluta, perché la crisi della lealtà ha moltiplicato a dismisura le sofferenze. Le persone sarebbero, forse, più disponibili alla reciprocità e realizzerebbero anche una maggiore coerenza, se non fossero così facili ed accessibili alternative "a buon prezzo" al sacrificio che la reciprocità comporta. Lo sforzo ed il sacrificio della relazione sarebbero, forse, compiuti con maggiore determinazione, se non fossero offerti, senza troppe pretese, sostituti, facili, incantevoli, “infallibili”.

Nella società del consumo è data a tutti la possibilità di acquistare i simboli stessi dell'identità personalizzata dall'amore, con tanto di approvazione sociale e di promozione dal mercato. La seduzione, per esempio, attraverso l'esposizione ad arte del proprio corpo, stimola nell'altro la desiderabilità, insieme all'intensa emozione che l'accompagna nel sentirsi voluto, cercato, preferito. Nella moda la sensazione momentanea di essere unici è data dal semplice adeguamento; per essere trendy è sufficiente acquistare. Negli acquisti si produce una distinzione, si acquisiscono i simboli dell'identità: sono i surrogati degli affascinanti frutti della relazione d'amore, che è possibile simulare e assaporare, almeno momentaneamente.

Il limite è evidente: la comunione istantanea senza impegno si capovolge presto nell'evanescenza. Chi non vuole legami troppo impegnativi, perché li ritiene un ostacolo ed un impaccio al ritmo veloce della vita e alla libera determinazione, considera questa disinvolta conduzione della vita un vantaggio.

L'esito complessivo è un rapido indebolimento dei rapporti umani che si spogliano di intimità ed emotività, una corruzione dell’esperienza dell’amore: le persone sono meno disponibili a spendersi per gli altri. Oggi più che mai le relazioni d’amore fanno soffrire, chiedono un investimento sempre più totale. Nel nuovo orizzonte culturale l’affettività entra con una tale forza emotiva da richiedere una particolare attenzione al riguardo. In un mondo in cui tutto cambia, tutto diventa difficile e rischioso, fragile e precario, dove tutto si modifica e svanisce, la richiesta d'amore si fa più esigente. Nello stesso tempo, aumenta la paura della delusione, la probabilità della frustrazione.

La vita come esperimento descrive bene una conseguenza dell’insicurezza affettiva, originata dalla “corruzione del codice dell’amore”: avviene come se il desiderio non potesse essere realizzato, potesse solo essere “provato” (G. Angelini). La necessità di "provare per credere ", il bisogno di esperienze fuori misura, per sentirsi vivi, denuncia il venir meno della spontaneità della vita.

La tendenza alla standardizzazione delle condizioni di vita, la spinta generalizzata al consumo, la spirale dell’individualismo non si fermano alle soglie della famiglia. La invadono, la frantumano, la mettono in discussione, fino a spingerla verso la dissoluzione della sua morale tradizionale.

Il "dramma sociale" di oggi consiste nelle radicali trasformazioni sociali della vita affettiva e familiare e il loro contraccolpo sulla formazione della sicurezza psicologica di base conseguenza del riconoscimento garantito dai legami familiari. I mondi vitali appaiono precari ed incerti; le persone si sentono tradite nelle loro attese più profonde

Le nuove generazioni dimostrano di conoscere bene il carattere ambivalente ed inquietante dell’esperienza sessuale: il sesso, pur così banalizzato, inquieta e perturba. Avvertono fortemente il bisogno affettivo ma, insieme, provano sospetto. Molti di loro hanno sperimentato la sofferenza e la delusione dei legami spezzati, dei rapporti traditi, oppure l'ansia e l'inquietudine della separazione o del disaccordo dei genitori. Sanno che amore e sesso sono cose distinte, a volte anche separate. Riconoscono che quando si prova amore tutto diventa più impegnativo e più difficile e allora inventano stili nuovi d'intesa tra donna e uomo, nuove dimensioni della sessualità, nuove espressioni dell'affettività.

Il racconto del dramma dell’amore insicuro può costituire una tappa importante della difficile rielaborazione delle delusioni e delle ferite affettive oggi così frequenti ed una produzione culturale di promozione del riconoscimento dei legami dell’amore.

 

2. Derubati del futuro

La società del mercato

 La “giovinezza prolungata” sta caratterizzando una nuova fase nel ciclo di vita familiare. Nel passato diventare grandi significava immaginare di costruire un futuro, autonomo e personale, fuori della famiglia. Oggi gli adolescenti vogliono crescere senza separarsi dalla famiglia. È percepito come problema non restare in casa ma prenderne congedo. Si costituisce una specie di nucleo domestico “allargato”e plurigenerazionale, ben diverso dalla passata famiglia patriarcale, in cui ogni membro ha il suo personale progetto da realizzare cercando, nei migliori dei casi, di conciliare le esigenze di tutti ma restando spesso estraneo e ed intento a badare a se stesso. o:p>

L’evoluzione della famiglia, al pari degli altri fatti sociali, è fortemente condizionata da quella perdita di speranza e progettualità così diffusamente avvertita nella società. Incapace di aprirsi il futuro, l’adolescenza si ripiega su un modello di eterna giovinezza, vissuta dal mondo adulto come nostalgia e dai veri protagonisti come miscuglio ambivalente di ebbrezza e delusione.

Venendo meno il progetto, non rimane che l'Io individuale, l'ambito più immediato della gratificazione e del riconoscimento: i valori della concretezza e della materialità sono vissuti come gli elementi essenziali dell’identità e della propria presenza al mondo. L’identità passa attraverso i consumi. Nasce qui il fascino, non ideologico ma pratico, del denaro come bene simbolico che permette di sentirsi presenti e protagonisti secondo le aspettative e le modalità del mercato globalizzato delle merci e dei beni.

La società di oggi, nei suoi atteggiamenti più diffusi, è ancora quella opulenta, descritta da Galbraith, dove la preoccupazione dominante è riposta nell'acquisizione dei beni. Secondo U. Beck[ii], però, l’attuale società non sarebbe contrassegnata non tanto dal primato dell’interesse economico e dal fascino esercitato dai beni materiali, quanto piuttosto dalla paura dei mali che incombono e dall'angoscia della loro incontrollabilità, dal momento che essi si presentano in modi imprevedibili e incalcolabili, non confinabili in qualche area, delimitati ma diffusi oltre ogni confine. Dalla "società industriale" si passa, così, alla "società del rischio"; dalla produzione e distribuzione dei beni la preoccupazione si sposta alla minimizzazione dei rischi. Le trasformazioni globali che stanno avvenendo obbligano a pensare la società con concetti nuovi, perché idee e nozioni usate finora non sono più capaci di rendere ragione del cambiamento epocale. I rischi contemporanei sono diventati globali nel senso che non sono delimitati né spazialmente, né temporalmente, né socialmente. Lo Stato moderno, evolutosi per disciplinare e dare sicurezza alle aggiustamenti del mercato intervenendo anche per garantire la distribuzione dei beni, perde la sua centralità, sostituita da quella dell'impresa transnazionale; nasce la “società del mercato”.

Nella globalizzazione dell’economia, però, tutto appare indeterminato, imprevedibile, ingovernabile, in stridente contrasto con l'accresciuta efficacia delle tecnologie. Le istituzioni della prima modernità non sono più in grado di produrre sicurezze. Non si conoscono e non si riescono a controllare le conseguenze delle decisioni assunte. Gli attori sociali devono negoziare le loro condizioni di vita in proprio. L’opinione pubblica non emerge da un processo di riflessione e comprensione di quanto avviene ma dalla percezione dei rischi e delle conseguenze problematiche delle decisioni da prendere. I timori ricorrenti, la sensazione forte della precarietà e delle insicurezze che ne derivano, la sicurezza minacciata del benessere raggiunto, l'incertezza sul futuro permangono, anche quando i numeri e le statistiche dell'allungamento della vita dovrebbero rassicurare il contrario, anche quando si continua ad esprimere una certa fede nella scienza e nel progresso delle tecnologie.

Il fascino delle cose concrete però non viene meno anche perché, la fragilità dei legami affettivi che non sostengono l’autonomia e i messaggi pubblicitari, fortemente orientati alla simulazione emotiva del benessere del consumo, predispongono ad una condizione di potenziale dipendenza. I beni meno acquisitivi come la salute, la cura di sé, il valore dei figli, l’affermazione delle capacità personali, la vocazione professionale, rimangono sullo sfondo senza riuscire a riscattarsi dall’incertezza che li caratterizza.

Nasce, piuttosto, un nuovo genere di consumo, affascinante e consolatorio: la merce esperienziale. I beni hanno sempre funzionato come indicatore rappresentativo delle appartenenze e fattore importante delle relazioni sociali. Gli stili di vita diventano anch'essi consumo. Negli acquisti, oggi, si compera uno stile di vita, si ricerca una distinzione. Per i collezionisti di esperienze, sempre avidi di nuove emozioni e sempre disposti a sostituire le delusioni con nuove sensazioni, tutto questo è un guadagno. Nelle società dei consumatori conta il desiderio, la saturazione immediata, il gusto del momento. La cultura dell'immediato promette un’eterna pubertà dove tutto è possibile e indeterminato ma l'esperienza dello "zapping" non può durare a lungo: alla sovrabbondanza delle possibilità si alternano i sentimenti della paura e della perdita. Molte sono le promesse proclamate, poche quelle effettivamente mantenute. La stessa scienza non si pretende più infallibile. La violenza in tutte le sue espressioni, verso le cose (teppismo) come verso gli altri (bullismo), nell'aggregazioni sportive (tra le tifoserie e negli stadi) come nella competizione (il doping), è sempre il segno di una condizione di malessere, radicata nell'isolamento e nella paura dell'altro. Prepotenza e aggressività sono fuga dal proprio mondo interiore e crisi profonda dell'identità personale. La consolazione del benessere fantasticato non è sufficiente a colmare il vuoto e la paura del futuro.

 

Il "dramma sociale" di oggi è il racconto della giovinezza defraudata del suo sogno, e ridotta alla combinazione, sempre problematica, di realismo e fantasia (perché mancano i grandi sogni), di ragione e desiderio (i giovani sono sensibili ed intelligenti e non smettono di interrogarsi) nel tentativo, troppo fragile, di prendere le distanze da quello che c'è (perché visibilmente riduttivo e insoddisfacente), con la paura che il futuro non possa iniziare (perché troppo difficile).

 

La nuova socialità degli adolescenti sta modificando la concezione stessa del tempo. Se gli spazi del protagonismo quotidiano si sono drammaticamente ridotti, di notte i giovani inventano nuovi margini di autonomia (anche solo le conquiste familiari, ormai facili, sugli orari di uscita e di rientro); se la competizione e il confronto procurano ansia e affanno, di notte si possono produrre nuove forme di avventura e di trasgressione. Di notte si ha come l'impressione di sospendere il tempo, o almeno, di inventare qualcosa di diverso. Di giorno i giovani sembrano a molti assenti e impauriti, di notte ritornano protagonisti, vivono le loro amicizie, costruiscono relazioni e divertimento, si trasformano: si accendono e si esprimono con libertà. Predominano spesso, tuttavia, la paura di non essere all'altezza delle attese degli altri e neppure dei propri propositi, l'ansia di non reggere alla competizione, la volontà di confondersi nella massa, di non esporsi e non tentare.

I giovani però non smettono di porre domande su se stessi, sulle relazioni con gli altri, sul loro posto in società, sul futuro, sul senso del morire e del vivere. Acquisiscono la loro identità e sono pronti ad assumersi le loro responsabilità adulte quando riescono ad individuare un progetto, una speranza cui riferire le proprie azioni. Hanno bisogno, a volte, di fermare il tempo per riflettere, per ragionare sulle proprie possibilità e trasformarle in vocazione. Cogliere queste tracce di speranza potenzialmente emergenti oggi nelle forme confuse dell'autorealizzazione è compito del riconoscimento operato dal diritto e dalla stima sociale, della giustizia e della solidarietà sociale.

            Il racconto del dramma della precarietà sociale è un modo per rendere esplicita la richiesta alle istituzioni sociali di un lavoro che manca, di occasioni serie e creative per il tempo libero, di una scuola maggiormente orientata alla vita.

I giovani colgono che solo attraverso il lavoro e la professione si può accedere a una condizione di identità riconosciuta. Le forme di dipendenza (non solo l'abuso di sostanze chimiche) segnano il fallimento dell'agire protagonista e compromettono l'apporto insostituibile dei giovani nella costruzione del vivere sociale.

 

3. La fine del gico

La società del controllo

  La ristrettezza dei luoghi per vivere e giocare è compensata dai giocattoli miniaturizzati, dai boy game in formato micro. I videogiochi e le televisioni non richiedono neppure più spazi fisici per il gioco. L’attività stessa del gioco è diventata inutile. Strade, cortili condominiali, giardini pubblici sono ormai esclusi come luogo del gioco e dell’incontro dei bambini; il rapporto di vicinato è sempre più raro. Oggi il gioco quasi non esiste più, sostituito da videogame, televisioni, internet, soffocato da quantità illogiche di giocattoli. Il gioco appartiene invece, naturalmente, alla cultura dei legami, ma gli attuali genitori provengono da una generazione che già non sapeva giocare.

L’organizzazione commerciale del tempo libero, creata per offrire servizi che sostituiscono i genitori che hanno poco tempo da dedicare ai figli, ha prodotto una colonizzazione estremamente invasiva dell'esperienza ludica, trasformando il gioco in sport, con la sua logica basata sull'addestramento per l’acquisizione di abilità che debbono condurre al successo. Il gioco è stato, così, estromesso dalla vita familiare e popolare.

L'esperienza stessa della festa sta perdendo sempre più terreno, occupato invece dalle attività del "tempo libero" dove spazi, tempo e persone formano l'alternativa alla fatica, la pausa che separa dal quotidiano. Le due esperienze sono però diverse: il tempo della festa nasce a partire dal valore unico delle persone ed è il terreno fertile delle ritualità e dei significati che rigenerano la quotidianità del tempo feriale; il tempo libero procura il riposo e l'evasione che staccano dalla quotidianità solo per riprenderla subito dopo.

Privati del gioco e della festa si cresce con l’obbligo competitivo di utilizzare e investire senza sosta le capacità e le risorse per obiettivi il cui raggiungimento è possibile solo da parte di un numero limitato di persone. Mai le società sono state così invasive degli individui, mai li hanno sottoposti ad un’influenza tanto ossessiva e massiccia, saziandoli e riempiendoli, sottoponendoli, fin dal primo mattino, a messaggi pubblicitari dove anche i giochi, i consumi e le emozioni sono presentate secondo l'assioma per cui "smettere è molto difficile, ricominciare facilissimo"[iii] (il classico copione della dipendenza). La “strumentalizzazione del basso” (Italo Mancini) si è così rivelata strumento efficace, apparentemente democratico e antiautoritario, per addomesticare lo spirito critico, consolare l'umiliazione della prestazione, lasciare libero spazio all'espandersi dell'immaginario consumista. La società attuale appare evanescente nei rapporti duraturi, ma ben consistente nei suoi controlli, nei condizionamenti che mette in atto, nella dipendenza reciproca che provoca e organizza. Pub, discoteche, palestre mostrano bene l’ambiguità della nozione di tempo libero. Ognuno deve gestire al meglio il potenziale personale (la sua immagine), controllando i suoi sfoghi, limitando la libera espressione di sé, contenendo la comunicazione dei sentimenti. Nel mondo cosmopolita la prossimità tra gli esseri umani si è fatta più intima e continua, il rispetto delle differenze impone di controllare le espressioni collettive e di contenere la manifestazione pubblica delle emozioni, degli affetti e delle pulsioni e finanche delle convinzioni più intime ed irrinunciabili. I comportamenti devono essere razionali e ragionevoli. Molte relazioni ed attività professionali e private soddisfano solo se tutte le persone coinvolte riescono a mantenere una sorveglianza costante sulla loro spontaneità, emotiva e affettiva. In pubblico prevale la conformità agli standard, la spontaneità è sotto controllo e il piacere prende la forma dell’impulso mimetico: divertirsi come è prescritto, godere come si conviene, sorridere, piangere, applaudire come e quando è previsto dal copione. E tutto questo in un momento storico in cui il tempo libero è aumentato più rapidamente della possibilità di usarlo per il proprio loisir. Diminuisce la spontaneità, aumenta l'ambivalenza: il corpo è oggetto di cura e motivo di fastidio, materia di autocompiacimento e fonte di vergogna. Man mano che si cancellano gli aspetti rituali, la festa si limita sempre più a quella “grassa licenza di svago che tanti osservatori moderni hanno deciso di vedere in essa"[iv]. Secondo il pensiero di R. Girard quando la festa non svolge la sua funzione catartica, finisce per prendere una "brutta piega" ed invece di liberare dalla violenza, la incentiva e la aumenta. L'autore vede nella "deritualizzazione" della festa nella società d'oggi una "non improbabile sindrome di ritorno alla violenza primitiva"[v]. Il modo individualista di vivere la complessità genera incessantemente controllo e competizione. La vita in mezzo agli altri appare sempre più una gara snervante, sottoposta alla minaccia della velocità e del rischio, assoggettata alla regola del "vinca il migliore" , che comprende anche la prevaricazione e la corruzione. La competizione stimola la selezione, la selezione ricostruisce le gerarchie, le quali, pur sempre provvisorie e minacciate, rilanciano il circolo vizioso.

La rivendicazione del diritto di ciascuno di ottenere riconoscimento della singolarità di un progetto individuale di vita, la tendenza a intendere la speranza e l'utopia nella sola frontiera delle potenzialità personali e dell'autorealizzazione, può prendere le forme più diverse: dall'ossessione per la riuscita economica, al culto del corpo in forma, all'emozione esclusiva degli sport estremi. Tutto diventa industria e mercato, anche il loisir. E' sempre meno possibile divertirsi con semplicità e spontaneità. Questo processo di omologazione e regolamentazione alimenta anche una particolare insofferenza verso tutto ciò che si sente imposto come obbligo. Le sensazioni si irrigidiscono, le emozioni si fanno più sfumate e controllate. Nella società nel suo complesso la gente è più isolata e ha meno opportunità si esprimere collettivamente emozioni e sentimenti forti.

Rimane la possibilità di accontentarsi di essere soddisfatti in una società dove ognuno ha la libertà relativa di scegliere il modo di vivere che gli va. Un orizzonte realista di felicità che è chiamato benessere individuale, dove il godimento e il piacere sono costantemente indicati come le dimensioni essenziali della salute.

Oggi è più difficile divertirsi: la società orientata al cosmopolitismo offre una moltitudine di identità, di prove di sé da assemblare individualmente, lasciando gli individui soli e carichi di responsabilità pesanti. La continua sollecitazione degli stimoli e l'alternarsi frenetico dell'esperienze, la pronta sostituzione delle delusioni, alla fine può essere tollerata grazie alla reazione contraria: la demotivazione, l’apatia, la noia, il non ascolto. L'esaurirsi degli orizzonti del senso alla sola dimensione materiale dell'esistenza spinge un numero sempre più alto di persone ad un bisogno intenso, a tratti disperato, di certezze o di credenze (che in pieno dominio tecnologico possono essere anche palesemente irrazionali o ingenue). Vivere nel relativo ha il suo costo, a volte pesante.

 

Il "dramma sociale" di oggi è la percezione di non riuscire più a possedere il tempo, che appare come voluto e organizzato da altri; ne deriva la penosa sensazione di non aver presa sul presente, di non contare nulla. Lo stato di costante precarietà e incertezza del futuro e la fortissima sensazione di essere senza alternative si traduce nell’incapacità o nella demotivazione a fare della propria vita un progetto. In uno scenario dominato dall’insicurezza si autoalimenta e si diffonde la disponibilità a consegnarsi al controllo e alla sottomissione impersonale, fino alla rinuncia alla propria autonomia e libertà.

 

A dispetto della società degli adulti, gerarchizzata e competitiva, le nuove generazioni hanno inventato uno stile di convivenza più democratico, meno centrato sulla figura del leader e più orientato al confronto di parità, almeno fino quando il gruppo è pacifico.

La perdita di progettualità, diffusamente avvertita nella nostra società e il venir meno di un orizzonte di speranza, non aiutano, però, la crescita e l'adolescenza diventa interminabile. L'ingiunzione martellante: "cogli le occasioni, godi te stesso" non può alla fine evitare la domanda decisiva "perché? in vista di cosa?", particolarmente oggi dove le energie individuali non sono più orientate a trasformare la natura o a migliorare l'ordinamento della società ma puntano, narcisisticamente, a coltivare un'interiorità intesa come esperienza emotiva fatta di sentimenti e di processi psicofisici. L'adolescente non smette, così, di porre domande su se stesso, sulle relazioni con gli altri, sul suo posto in società, sul futuro, sul senso del morire e del vivere. Acquisisce la sua identità ed è pronto ad assumersi le sue responsabilità adulte quando riesce ad individuare un nucleo stabile cui riferire le proprie azioni. I giovani esprimono, al di là della reale coerenza personale, una domanda, fragile e a tratti confusa eppure reale, di riflessività, di interiorità e di personalizzazione, centrata sulla produzione soggettiva di senso. Esiste una dimensione di mistero che molto affascina gli adolescenti. Spesso si ricorre alla droghe per "prevenire" il senso del vuoto; come se si avvertisse, già in anticipo, che certe esperienze non produrranno ben-essere e si volesse, da subito, evitare delusioni e solitudine.

            Il racconto del dramma della precarietà può aprire un varco all’espressione profonda ed autentica di sé: l’inquietudine della fragilità alimenta nuove domande di senso, produce forme spontanee di disgusto del vivere materiale, suscita un'imprevista disponibilità alla ricerca di senso e attese diffuse di spiritualità. Ne sono testimonianza anche i tratti, a volte “mistici”, delle epopee virtuali mixate dai dj e narrate dai vocalist. Oggi i desideri più profondi dei giovani sono quasi mai presi in considerazione dalla società: la performance estetica ed artistica può offrire una prima possibilità di ascolto e di comune ricerca ad un popolo di spettatori in cerca di felicità.

 

4. Senza identità

La società dell’incertezza

La libertà che il mercato offre è quella della frammentazione del tempo in episodi senza risultati durevoli, adatti però a sostituire subito l’insoddisfazione con nuove emozioni.

La paura dell’inadeguatezza e la frenesia del consumatore sono strettamente intrecciate, si nutrono reciprocamente e trovano l’una nell’altra l’energia necessaria a sostenersi. L’individuo moderno si ritrova nella condizione di consumatore di merci, collezionista di piaceri, cercatore di sensazioni.

Si può fare “tutto ciò che si vuole” ma spesso non si sa bene quello che si cerca. I desideri sembrano non avere una meta definita, una visione coerente della forma che possono assumere. Manca la configurazione del desiderio, attitudine che si acquisisce in famiglia tramite il codice paterno che fonda l’autonomia psichica, e si apprende nella società immedesimandosi nel costume sociale e nel riconoscimento delle proprie radici culturali.

L’incertezza deve ora essere vinta con i propri mezzi anche a costo della paura dell’inadeguatezza. La cultura nichilista libera dall'impegno e dispensa dall'assunzione della responsabilità ma non risparmia l'angoscia che alimenta le forme di dipendenza ed, in certi casi, il rifiuto della vita.

La standardizzazione dei costumi è, in fondo, una scelta economica legata al risparmio. I tempi della vita sono diventati frenetici e lo spazio della comunicazione faccia a faccia si è ridotto, la relazione con l'altro deve adattarsi alle esigenze della velocità. Il corpo in forma, che si fa notare e colpisce la vista e limmaginazione, emerge con immediatezza. Le qualità interiori, invece, le sicurezze affettive, la singolarità della persona, non hanno la rapidità del corpo allestito. Indossare e possedere i segni appropriati, procurati attraverso i consumi o i risultati competitivi produce identità e appartenenza e riempie il vuoto del riconoscimento sociale: ci si sente membri di un gruppo, ci si ritrova in un certo modello di vita, lo si adotta come marchio distintivo.

L’assenza di legami profondi amplifica, però, l’assenza di sicurezza. La persona si sente sola: all’individuo è lasciato l’onere di autogestirsi nelle proprie scelte, di esaminare e controllare se stesso in modo minuzioso per adeguarsi alle attese e di badare alla propria autoformazione con l’incombenza di mantenersi sempre efficace nel realizzare i suoi obiettivi. Nel momento in cui la comunità diventa evanescente, la cura dei legami interpersonali viene sostituita dal compito dell’ autorealizzazione. Si affronta il problema dell’“identità”, in termini però ben diversi dal passato: non risponde alla domanda “Io chi sono, chi voglio essere” ma ad un interrogativo più immediato, apparentemente più semplice: “Io cosa desidero, qui e adesso”. L’identità del desiderio non sopporta le appartenenze, il “gruppo” è funzionale al desiderio. “Desiderare” significa uscire dalla “massa” (dai vincoli dei legami), definirsi diversi, costituirsi unici.  L’elemento che crea il “gruppo” è la realizzazione del desiderio, la consistenza dei legami non può che essere leggera. Non si amano gli impegni a lungo termine, si evita l’assunzione di responsabilità.

“Il tratto comune alle comunità estetiche è la natura superficiale, frivola e transitoria dei legami che si instaurano fra i rispettivi membri”[vi], secondo il modello del “massimo impatto ed obsolescenza istantanea” di George Steiner.

I giovani sono, così, preoccupati più di lasciare aperte le possibilità che di raggiungere obiettivi definitivi. Avviene come se la paura di entrare da adulti nella società li spingesse a rimandare senza fine le scelte importanti, per inseguire un orizzonte che rimane irraggiungibile ed indefinibile. Per la prima volta nell'evoluzione della nostra cultura le nuove generazioni sono lasciate la loro destino, all'evoluzione della loro autonomia personale sempre più libera da appartenenze e da orientamenti sociali.

Oggi, infatti, non ci sono più ritualità collettive, riconoscimenti sociali alle prove superate con successo (ne sono un esempio la scarsa valorizzazione del titolo di studio, la difficoltà a trovare lavoro, la scomparse delle età…).

 

Il "dramma sociale" da raccontare è la sensazione di perdita sia della sicurezza che della libertà insieme allo sfacciato trionfo dell’effimero e dei suoi idoli. Più che ostili le nuove generazioni sembrano tacere, in un silenzio confuso al quale è necessario dare parola.

 

Un modo di stare nella complessità consiste nel puntare ad un senso forte dell'individualità personale. Così i giovani diventano assai abili nel ricercare obiettivi realistici, nel perseguire significati a propria misura, nel maturare un certo equilibrio, pure in contesti oggettivamente difficili. Le nuove generazioni non hanno un progetto di società alternativo a quello ricevuto dai loro genitori; sembrano identificarsi senza troppi dubbi nella società del benessere e del consumo alla quale partecipano quotidianamente. Amano la vita comoda e confortevole. Gli adolescenti non sono contestatori né “alternativi”; per lo più non amano la trasgressione, preferiscono il conformismo. Non avendo più bisogni primari da soddisfare ma solo gusti e desideri, il gioco dell'offerta e della domanda diventa illimitato.

Gli equivoci e le perdite di stili di vita improntati all'insegna della ricerca della gratificazione istantanea senza direzioni, sono espressione di una civiltà che è passata dalle "tecnologie dei bisogni alle tecnologie dei desideri", di un disorientamento profondo dove non si commettono più errori ma solo si può "errare", (nel senso di vagare e fraintendersi), alla ricerca di "piaceri senza interesse e di finalità senza scopo"[vii]. Senza orientamenti e senza valori di riferimento non è possibile fare scelte, assumersi responsabilità; in una parola: non si può crescere.

            Il racconto del dramma della identità mai conclusa rende esplicito il bisogno di modelli di orientamento per non subire gli eventi ma poter entrare in modo consapevole nelle trasformazioni della società complessa ed acquisire un ruolo autonomo e responsabile.

L'attuale è "un'epoca di carne pubblica"[viii]: nella fragilità dei rapporti, nell'incertezza e nel timore del rischio si vuole sentire l'altro, volerlo vicino, fino al limite del proprio spazio vitale. Si vuole entrare furtivamente nell’intimità dell’altro. Una ricerca estrema di punti di aggancio per la propria vita che vorrebbe compensare la perdita di modelli e di eventi di riconoscimento che spesso i giovani non hanno trovato né nella loro famiglia né nell'istituzione scolastica.



[i] Nel senso di A. Pizzorno, L’incompletezza dei sistemi, in F. Rositi, Razionalità sociale e tecnologie dell’informazione, Comunità, Milano, 1973, p. 163-227

[ii] Beck U., I rischi della libertà, Il Mulino, Bologna, 1994 (tr. it. 2000)

[iii] Nota pubblicità televisiva di un prodotto destinato ad un target minorile.

[iv] R.GIRARD, La violenza e il sacro, Adelphi, Milano, 1992, pp. 168-169

[v] R.GIRARD, La violenza e il sacro, cit., pp. 161-169

[vi] Z. Bauman, Voglia di comunità, cit. p. 69

[vii] MORRA G., Il quarto uomo, Studi di sociologia, 4, 1985, p. 329.

[viii] Cfr. Bonomi A., "Il distretto del piacere" Bollati-Boringhieri, Torino, 2000.