L'evangelizazione

 

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      Riferimenti teorici

Nuove forme di evangelizzazione

Il Vangelo: un annuncio ed un evento

Si può ancora raccontare il Vangelo alle nuove generazioni?

A qualcuno potrebbe sorgere il dubbio, soprattutto quando si fermasse a certe descrizioni degli attuali adolescenti o misurasse alcuni risultati della pastorale.Uno sguardo più attento può invece constatare come l’evolvere della società apre strade nuove, inimmaginate, appassionanti.  Come gli adolescenti trovano continuamente nuove espressioni di sé ed inventano forme inedite di umanità, così lo Spirito è all’opera nei nuovi segni dei tempi e precede l’azione stessa dei missionari.

 L’evangelizzazione è un “annuncio” nel senso più compiuto e forte del termine: una comunicazione di qualcosa che avviene e che segna una differenza. Indica il superamento di una condizione e prefigura  una novità. ed un inizio  (“Vi è stato detto ma io vi dico”) La novità non necessariamente si pone in termini polemici, anzi il Vangelo presuppone innanzi tutto la simpatia ma contiene un superamento, una condizione inedita ed originale.

I linguaggi performativi sono quindi i più adatti per rappresentare l’evento evangelico. La Chiesa, infatti, è nata a Pentecoste all’interno di una “performance cosmopolita” ad alta intensità emozionale

Il Vangelo non è precisamente una “notizia”;  è piuttosto un “fuoco “ portato sulla terra in attesa di divampare e tutto trasformare, secondo il desiderio stesso di Gesù. E’ un avvenimento, un’esperienza concreta che si radica nel passato, in fatti realmente avvenuti ma che si realizza nel presente nella parola che lo annuncia. Il termine originale (greco) che indica questa particolare forma di comunicazione è “kerigma” che letteralmente significa l’azione del gridare, del proclamare, come fa il banditore (chi proclama a voce alta sulle strade notizie d’interesse pubblico). Il suo centro vitale consiste nella proclamazione della morte e risurrezione di Gesù, annuncio fatto sotto l'azione dello Spirito Santo da parte di chi ne è testimone. Il kerigma è quindi la comunicazione, convita e convincente, al mondo che Gesù è la salvezza (la piena realizzazione delle attese più vere e profonde, la felicità compiuta, il senso della vita, la liberazione dalla morte). Di questo “centro infuocato” che tutto riscalda bisogna prima farne una reale esperienza per poi irradiarne il calore. Il kerigma è parlare di Gesù come uno che entra nella vita e la cambia, perché con lui la vita diventa un’altra cosa.

“Il cristianesimo non è un’idea, ma una Persona. Grandi teologi avevano tentato di descrivere le idee essenziali, costitutive del cristianesimo. Ma il cristianesimo che avevano delineato, alla fine appariva una cosa non convincente. Perché il cristianesimo è, in primo luogo, un Avvenimento, una Persona… Se siamo convinti e abbiamo fatto l’esperienza che senza Cristo la vita è incompleta (…), dobbiamo anche essere convinti che non facciamo torto a nessuno se gli mostriamo Cristo e gli offriamo la possibilità di trovare così anche la sua vera autenticità, la gioia di aver trovato la vita” (Benedetto XVI).

“Gesù è il Cristo” dicono i cristiani per condensare in una formula il loro credo. I due termini, parlare di Gesù e annunciare il Cristo, si riferiscono certo alla stessa persona  ma indicano due diversi tempi dell’annuncio, si riferiscono a due destinatari differenti. Per avere fede in Gesù e considerarlo il Signore, occorre prima incontrarlo nella sua avventura umana di ebreo del suo tempo, frequentarlo nella sua vera umanità, riconoscere i suoi tratti fondamentali: la qualità della vita che faceva, il messaggio che rivolgeva alla sua gente, le opere che compiva e il significato della fine tragica della sua esistenza terrena. Narrare la sua vita, sentire e comprendere le sue parole, capire cosa è stato per lui il senso dell’esistere, sono già passi concreti di un incontro che prelude ad un’esperienza possibile: fare conoscenza di una persona reale e non solo parlare di un personaggio del passato.

Una stagione favorevole

L’annuncio dell’essenzialità della fede pare stroncato nel nascere dall’indifferenza di chi non risponde e con il suo disinteresse sembra dire: “Dio non mi è necessario, dunque il Figlio di Dio non mi riguarda”. Eppure, proprio questa disarmante constatazione stabilisce le disposizioni, in un certo senso più idonee nei confronti dell’annuncio del Dio cristiano, il quale esige il linguaggio della gratuità, del dono, della grazia e si diffonde con la dinamica dell’incontro e dell’amore, più che con quello della convincimento, della proselitismo. La secolarizzazione è anche una purificazione della fede, una condizione che sostiene l’adesione a Dio come un assenso gratuito (e non un “obbligo” della pressione sociale e neppure necessità di una dimostrazione razionale), perché Gesù non si è imposto con la potenza o con il ragionamento erudito ma si è rivelato al mondo con l’incontro, il servizio, la simpatia.

Chi oggi annuncia il Vangelo si trova, così, a condividere una condizione simile a quella degli attuali genitori: nella società delle libertà l’obbedienza non è più una virtù. Non si può concludere, con questo, che non sia più possibile educare. Al contrario l’educazione non è più una pratica scontata ma una conquista, è il tormento ma anche la gloria dei nuovi genitori. La ricerca pedagogica avvalora la nuova condizione quando dimostra che da liberi si cresce meglio. Qualcosa del genere si può affermare anche a proposito della proposta del vangelo: “liberi si crede meglio”.

Non si tratta di arrestarsi sconsolati di fronte all’assenza di Dio in un mondo indifferente, piuttosto di accettare di mettere in discussione i modi inefficaci di presentare e parlare di Gesù, suo Figlio, a partire, però, dalla qualità della sua vicenda umana.

La domanda di senso e di salvezza non potrà essere spenta del tutto: nelle nuove sensibilità dei giovani, anche nelle loro ambivalenze, è contenuta l’indicazione di una strada da percorrere. La fede non smetterà mai d’interrogare chi riflette sulla vita e sul mondo: pensare che tutto sia esclusivamente frutto del caso e che nulla esista se non destinato a finire e a morire, non è meno "assurdo" che ammettere un universo nato da un'Intelligenza e retto da un dono d'Amore; un mondo lasciato a se stesso non è più "comprensibile" di una terra che Dio ama appassionatamente fino a dare il suo Figlio.

Il consumismo distrae e banalizza le grandi domande di senso, ma queste non possono essere messe a tacere completamente e definitivamente. La persona umana non ha solo bisogni materiali: non riesce a fare un'esperienza buona e positiva dell'esistenza, se non ponendosi domande e cercando risposte per collocare le sue esperienze e interpretare il mondo in un ordine coerente, secondo un principio di senso.

Proprio là dove più impraticabili sembrano le strade (a motivo della cultura e degli stili di vita dei destinatari) è sempre possibile scoprire sensibilità ed aperture inimmaginate, originate dai medesimi presupposti culturali che pongono le difficoltà.  Il pluralismo religioso e il “pensiero debole” aumentano la convinzione che il divino sia meglio espresso dai linguaggi dell’immaginazione più che in quello della teologia e della catechesi. I simboli emozionali non sostengono certo grandi motivazioni di fede. Gli impegni religiosi perdono forza e consistenza e diventano soggettivi: le persone partecipano “se se la sentono, se sono interessati”. Può accadere che anche la “profezia” (che si fa con la parola detta in pubblico, come avviene in numerose forme di nuova evangelizzazione) diventi oggetto di un godimento estetico che non cambia la vita: si può cercare nella parola che annuncia una risorsa per sognare, per commuoversi, senza che ne vada di mezzo la qualità delle scelte quotidiane e la gerarchia degli interessi della vita.

Non c’è nulla da temere: il Signore Gesù non è venuto a portare una risposta di felicità più che un corpo di dottrine? Non ha considerato, forse, il ben-essere del corpo come un segno del Regno? Non ha annunciato la Parola e il perdono dei peccati operando guarigioni, invitando poi ad andare oltre? Non è, la sua, una felicità concreta e storica, dal momento che il Regno comincia già qui? Non è Egli il Figlio di Dio fatto carne? Non ha scelto come collaboratori dei discepoli mandandoli a farsi “Giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei” (1 Cor 9, 20) e la Pentecoste non consiste nel dono di parlare “come nativi” nei contesti, negli ambienti, nei gruppi più diversi?

La giovinezza è l’età del sogno e dell’eroismo, il tempo in cui più si è disposti a spender di se stessi. È quindi un tempo particolare della Grazia e dello Spirito. L’evangelizzazione non è tanto programmazione di iniziative, rete di relazioni da organizzare, convocazioni da proporre. È fondamentalmente un tempo di entusiasmo (nel suo significato etimologico di “nel respiro di Dio”!). Sono eventi comunicativi che vogliono toccare l’anima, trasmettere l’emozione del mistero cui alludono, chiamare ad uno sguardo lanciato all’interiorità, attraverso il linguaggio di ciò che è bello e fa star bene. Dio, che non ignora il corpo sensibile del giovane, ma, nello Spirito, lo fa ardere, accende luce anche per i sensi, perché non li vuole spenti (a tanto si spinge, nella linea dell’incarnazione, l’inno liturgico), scalda e scioglie ciò che è assopito ed alienato, rigenera ciò che è distrutto e senza desiderio. Anche la crisi adolescenziale e giovanile trova nella Vocazione un orizzonte di senso adatto per ripensare l’intero rapporto tra la comunità cristiana e i giovani, capovolgendo il modo di accoglierli. Sentirsi chiamato ed aspettato dalla sua comunità, ricevere un incarico, un mandato, appassiona l’adolescente e lo fa crescere. 

Un’esperienza che si comunica per contagio

Come potrebbe l'annuncio evangelico provocare i giovani, se essi non sono più attraversati da grandi conflitti interiori e sembrano, ormai, adattati ad ogni novità ed eccesso, a sostituire ogni esperienza con altre emozioni? Il pluralismo delle etiche non ha relativizzato la stessa testimonianza di vita?

L'indifferenza e il non-senso investono per molti giovani il contenuto stesso dell'annuncio cristiano (accolto e poi abbandonato) e la stessa storia di Gesù, la possibilità di presentare come convincente la sua vicenda, il suo messaggio, la sua risurrezione. Molti giovani vedono che senza fede si vive lo stesso e sembrano non farsene un problema. I giovani fanno fatica a scegliere, non riescono a discernere con facilità tra ciò che è diverso per cultura o per religione. Per loro è difficile accettare e decidersi verso scelte totalizzanti (come necessariamente si presenta la fede), mentre, invece, sono più disponibili a scelte temporanee. Sono generosi, ma, spesso, ciò che impegna "per sempre", risulta loro difficile, come inconcepibile. Sono aperti alle domande di senso ma prevalentemente se è ricercato nelle forme concrete della vita; fanno esperienza di verità nella forma dell’immediatezza: "ciò che adesso mi convince e che mi tocca". I giovani, quindi, sembrano oggi cercare forme più naturali o più semplici di religiosità anche se non manca una domanda, una ricerca vera di spiritualità. La fede tende a non essere percepita come valore esterno o imposto ma come fedeltà a se stessi, a ciò che essi sentono e provano.

Il Vangelo non diventa vita finché l’adesione al Signore non è un’esperienza personale, compiuta  insieme con altri in una relazione autentica di vita “libera, autonoma e felice”.

Questa è stata precisamente l’esperienza dei primi discepoli: hanno seguito da vicino il Maestro, hanno vissuto quotidianamente con lui condividendone a tal punto la sua esistenza, da toccare con mano, pieni di stupore e di ammirazione, nella sua umanità, dei tratti divini, come il giorno in cui la sua persona si è come trasfigurata davanti ai loro Per questo lo chiamavano il Signore. La sua esistenza spesa per gli altri, il modo con cui sapeva stare con la gente, si fermava con i bambini o considerava la donna, trasmetteva una forza pari alla potenza con cui operava i miracoli. Il centurione romano si convinse della grandezza di Gesù da come lo vide morire e testimoniare fino all’ultimo una qualità  dell’amore che s’imponeva sulla morte.

Gesù ha raccontato Dio con la sua vita: in lui non è possibile separare il suo essere uomo riuscito (immanenza) e indicazione chiara ed evidente di Dio (trascendenza). Le sue parole erano tutt’uno con la sua vita.

I primi cristiani sostenevano, quindi, di aver imparato da Gesù non solo le cose divine ma anche come si vive «con sobrietà, giustizia e pietà in questo mondo» (cfr Tt.  2,11-12). D’altra parte il vangelo si diffuse nel mondo attraverso la potenza delle opere, cioè la testimonianza della qualità della vita: era lo stile di vita delle comunità delle origini che attirava l’attenzione e la simpatia della gente e contribuiva al diffondersi del Vangelo.

“La gloria di Dio è l’uomo vivente” si poté dire con un formula sintetica e chiara: la persona che sa vivere in pienezza è l’attestazione della novità del Vangelo che, a sua volta, è l’indicazione e l’aiuto più efficace per vivere bene.

Nella Bibbia il bisogno assoluto di senso, l'attesa di un approdo sicuro,  la risposta al dramma della morte è indicato con il termine salvezza. I cristiani credono che solo nel Vangelo c'è piena e sicura salvezza. Il dono di Dio (la salvezza) si rivela innanzi tutto come vita riuscita, come pratica di umanità, come arte del vivere: fare della propria esistenza un’opera d’arte capace di sfidare la stessa morte.

La qualità della vita personale e l’autenticità delle relazioni tra le persone sono ancora oggi le prime condizioni della trasmissione della fede. L’evangelizzazione è l’opera che Dio solo compie attraverso lo Spirito, che agisce, come condizione normale, nel contesto della testimonianza dei credenti (cfr. Mc 2,5). Se quello che conta è il Kerigma, l’oratorio non è fatto soltanto di giochi e di feste, di riunioni in gruppo e di ritrovi in chiesa ma è innanzitutto un insieme di relazioni interpersonali riuscite, dove ogni persona è considerata per se stessa, ad ognuno è rivolta una proposta specifica, ognuno è accompagnato ad un incontro personale con il Risorto. Non è però possibile annunciare senza vivere, per primi, ciò che comporta, senza aver  aderito alla fede, senza aver fatto un’esperienza vera di Gesù vivo. Il Vangelo è un’esperienza che si comunica “per contagio” attraverso la qualità della vita trasformata da un incontro reale.

Come l’espressione di sé sembra precedere il pensiero negli atteggiamenti dei nuovi adolescenti, così l’esperienza di una vita “libera, autonoma e felice”, cioè, bella, costituisce il contesto più opportuno perché la Parola possa essere accolta. Bisogna uscire sia dalla mentalità catechistica, preoccupata di fare discorsi sulla fede (anziché esperienze reali di incontro con Gesù), sia dalla mentalità del “parrocchialismo”, preoccupata di  “star bene” nel proprio gruppo. 

Gesù, una persona viva 

Una possibilità offerta a tutti

Perché oggi un giovane dovrebbe scegliere il Signore Gesù, tra tante proposte più facili, in mezzo a distrazioni e voci tanto dissonanti e contraddittorie?

L’evangelizzazione non è un’azione di propaganda (proselitismo) bensì è kerigma: un’esperienza concreta per la quale Dio non è un concetto ma una persona e Gesù non è un personaggio ma una presenza. Qualcuno potrebbe obiettare che quello che conta non è l’annuncio ma la testimonianza, che ciò che salva è la vita spesa nell’amore e non la fede professata, o potrebbe pensare che l’evangelizzazione, in realtà, è solo proselitismo. Il Vangelo contiene una risposta chiara: “Andate in tutto il mondo e fate miei discepoli”.  Se ne comprende l’intima coerenza: se il Vangelo si dice completamente nell’esperienza dell’amore e se la fede consiste in un incontro che rende bella e salva la vita, l’offerta di questa possibilità è un’esigenza dell’amore.

Come non leggere nel girovagare apparentemente senza meta dei ragazzi, nell’istantaneità con la quale vivono le loro sensazioni e ricercano nell’immediato una traccia di senso, l’indicazione di una svolta epocale profonda? Ciò che rende avvincente oggi la vita è la sovrabbondanza, l’eccedenza di possibilità che il progresso delle scienze, l’avanzamento delle tecnologie, il pluralismo del pensiero mette a disposizione delle persone. Oggi tutto è dato al plurale in una profusione di offerte un tempo neppure immaginabile. La possibilità affascina ed invita alla prova, a partecipare dell’abbondanza.

La possibilità occupa, così, nel pensiero e nella mentalità di oggi un’importanza centrale, il posto che un tempo ricopriva il concetto di natura. Natura è tutto ciò che è dato come fisso e determinato, possibilità è ciò che ognuno potrà divenire mediante l’uso della sua libertà di scelta. Il mondo appena lasciato aveva, così, il senso dell'autorità, intendeva l'insegnamento come trasmissione della verità. Oggi la società è descritta come complessa: il suo modello è il supermercato (la profusione fino allo sperpero), la sua metafora il telecomando (poter scegliere, passare da un'esperienza all'altra, non rimanere troppo a lungo nel medesimo luogo). Tutto pare sottoposto ad un criterio commerciale generalizzato, come se valessero in ogni campo le regole del marketing: ci si concentra sui beni, non sulla verità. Si è costretti a scegliere nella pluralità delle opzioni:  ci si interroga sui vantaggi, ci si chiede ogni volta: " a che serve?". La gente vuole scegliere, sperimentare: non accetta nulla in modo passivo, non ripone una fiducia scontata nelle istituzioni, anche le più sacre. Al tempo stesso esige garanzie: di non perderci, che serva a qualcosa, che sia utile…Il potere è dato all'uditorio: è il pubblico che giudica ciò che è buono e non la parola di una qualche autorità (salvo poi cadere succubi delle mode, delle suggestioni, delle dipendenze). L'enfasi è posta sulla scelta e sulla discussione (discussioni in famiglia, a scuola, in parrocchia…): si chiede, si pretende, si valuta, si sceglie, si rimette tutto in discussione…

La possibilità è intesa in senso concreto ed immediato ma, al tempo stesso, vitale perché dà gusto e piacere alla vita. Gli adolescenti vivono in un mondo di possibilità eccedenti: per loro ogni esperienza è reversibile, ogni occasione godibile; il corpo stesso è considerato “plastico”, oggetto manipolabile secondo il desiderio. Questo aspetto provocatorio offre in realtà nuove opportunità d’accoglienza del Vangelo, permette di gustare inedite dimensioni dell’intramontabile verità della Parola.  Ciò che la secolarizzazione ha prodotto non è il tanto insistito principio della “gratificazione istantanea”, quasi che l’agire dei simboli e dei riti (e il cammino religioso) fosse cupo e triste mentre la vita materiale tutta leggera e gaudente. Chi pratica un cammino di fede vive anch’egli una vivida emozione che non chiama gratificazione ma piuttosto "stato di grazia" (sotto forma, per esempio, di intima commozione nella celebrazione liturgica, di godimento per la vicinanza di Dio, di distensione e serenità nella preghiera, di pace profonda, di qualità della vita vissuta nell’amore…), percepibile e verificabile nell'esperienza della felicità, intesa non come il risultato di una pulsione (o di una prestazione) ma come uno stato interiore.  La differenza stabilita dalla “gratificazione istantanea” secolarizzata consiste, piuttosto, nel fatto che, in questo caso, tutto il processo avviene al solo livello individuale ed essendoci solo individui, non si aprono orizzonti, al di là del proprio desiderio e non si creano simboli con cui  “percepire” una presenza che sta oltre (trascendenza) pur essendo “dentro” (immanenza).

Il tempo senza durata e lo spazio senza luogo della socializzazione degli adolescenti indicano bene l’intensità di una ricerca che non si soddisfa del relativo delle esperienze quotidiane e che, implicitamente, tende all’assoluto, così come la noia è una ribellione dell’intelligenza di fronte al vuoto della gratificazione istantanea individualistica e la tristezza un segno inequivocabile di una mancanza e di una delusione profonda. I confini incerti del sentire del momento (agisco "se me la sento", "ora no, forse domani"…) delineano un’esperienza troppo angusta che non realizza un’autentica fedeltà a se stessi e che chiede di essere sorpassata. Il consumismo distrae e banalizza le grandi domande di senso, ma queste non possono essere messe a tacere completamente e definitivamente. Le persone oggi, però, (e non solo gli adolescenti) non sono tanto alla ricerca di ragioni forti di verità per rivolgersi a Dio, ma esperienze reali e credibili per  scoprirlo come Amore e ricercarlo ogni giorno (come d’altra parte insegna la preghiera cristiana).

La sfida culturale non consiste più nella capacità di dare motivazioni fondanti per un impegno coerente nella pratica della fede, ma piuttosto nell’offrire stimoli efficaci nel rilancio quotidiano del desiderio. L’orientamento verso il divino non è sostenuto tanto da concetti dottrinali e astratti o da pratiche prestabilite ed obbligatorie ma da gratuità e gratificazione, connesse a simboli emozionanti ed efficaci.

La maturazione della fede, che comporta invece una decisione definitiva che deriva dall’incontro con il Signore Gesù e dal suo invito “vieni e seguimi”, non può che essere narrativo, lento e paziente. Le metafore bibliche del credente, d’altra parte, descrivono la fede come un cammino, una crescita verso una statura mai raggiunta. L’interiorizzazione del divino comporta il cammino dell’ “homo viator, spe erectus”, del viandante che cerca la sua terra, del pellegrino che cammina verso la meta, dell'innamorato che attende il suo amore… Metafore, come si vede, vicine al girovagare adolescente.

L’età della speranza

La fede cristiana non è indottrinamento, insipida diffusione di un messaggio: è la costruzione di una speranza, l'annuncio di una notizia che fa piacere sentire.  In un tempo caratterizzato dalla caduta della speranza e dal disorientamento etico ma anche dalla possibilità di esercitare una libertà democratica senza precedenti, la richiesta che più sembra emergere dai cittadini è la garanzia della sicurezza. Spesso s'interpreta  l’incertezza come se questa dipendesse  da un difetto di informazione sul futuro: in realtà quello che manca è un progetto, una speranza capace di dare forma a quel futuro. D'altra parte, la sicurezza e la coerenza, per manifestarsi con sufficiente perspicacia hanno bisogno di un supplemento d’idealità e di speranza personale e collettiva. George Bernanos già anni fa aveva descritto con precisione lo scenario giovanile di oggi: “quando la gioventù si raffredda – scriveva - il resto del mondo batte i denti”.

Vivere è sempre più una fatica, la leggerezza del sentirsi liberi e svincolati dagli impegni etici diventa presto un obbligo insopportabile: è sempre più difficile essere all'altezza di sé, delle aspettative degli altri. Questa inquietudine del vivere alimenta nuove domande di senso, produce forme spontanee di disgusto del vivere materiale, suscita un'imprevista disponibilità alla ricerca religiosa  e attese diffuse di spiritualità. Oggi i desideri più profondi dei giovani sono quasi mai presi in considerazione dalla società: nell’incontro con il Vangelo e le comunità cristiane i giovani possono sentirsi ascoltati e valorizzati e le loro domande trovare attenzione. La crisi aperta dalla secolarizzazione può rappresentare una grande opportunità di mettere a disposizione di tutti l'eccellenza della salvezza di Cristo.

La speranza è uno stato ed uno slancio interiore che ha il potere di trasformare la realtà perché permette di cogliere ancora e sempre vie nuove, anche quando l’orizzonte dell’immediatezza sembra negarle. Per chi spera non ci sono situazioni che condannano all’immobilità: in ogni momento  è data ancora e sempre una possibilità, come pregava il salmista: “spera in Dio, perché ti rattristi? Ancora potrò lodarlo!” (Salmo 42), come insegnava il profeta: “le misericordie di Dio non sono finite” (Lamentazione 3,22).  La tradizione cristiana coglieva della speranza direttamente la sua dimensione oggettiva: la vita eterna. La mentalità secolarizzata avverte meno il fascino dell’eterno e riporta la speranza al suo aspetto soggettivo (cosa la rende possibile), intendendola in senso pratico (come organizzarla e renderla operativa). Anche nella storia biblica i motivi di speranza, le risposte alle provocazioni della vita si formulano e si precisano a partire da situazioni concrete: la presa di coscienza di condizioni di schiavitù, di eventi di liberazione (Esodo) o di riscatto del popolo (ricostruzione del dopo esilio); la riflessione sui grandi interrogativi del vivere e dell'esistere (Genesi); l'esperienza del patire e del morire (Giobbe); il bagaglio di saggezza  e di sapienza che si accumula nella storia della gente che vive e ripensa la sua avventura personale e collettiva (Proverbi); il misterioso intreccio di pena e godimento della vita di ogni giorno (Cantico, Qoelet).

La particolare condizione del cattolicesimo in Italia (un misto di appartenenza senza fede e di fede senza appartenenza, una fede mai del tutto dimenticata o rinnegata, ma in qualche modo sospesa, rinviata) richiede che siano costantemente richiamate le esperienze fondanti della speranza e sia illustrato nel modo più evidente il rapporto che la fede stabilisce con la vita, condizione essenziale perché la speranza appaia reale e concreta.

La fede che mette le ali

“Anche i giovani faticano, gli adulti ma quanti sperano nel Signore mettono ali come aquile, camminano senza stancarsi. (Is. 40, 30). La fatica dei giovani era già riconosciuta nell’antichità. La giovinezza, età del sogno e della promessa di vita, è allo stesso tempo metafora della speranza e della fragilità della vita, poiché in nessun altro arco d’età diventa evidente come, tolta la speranza, la persona cade nell’apatia e nella tristezza.

L’iconografia classica rappresentava la speranza come un’ancora, gettata in alto che dà stabilità e sicurezza, o come una vela che raccoglie il vento dello Spirito e fa volare.  La testimonianza attiva della speranza è la vera sfida della nuova evangelizzazione. E’ anche il servizio più importante che la comunità cristiana può fare alla società.

La speranza “mette le ali” (“furono date alla donna le due ali della grande aquila, per volare nel deserto verso il rifugio preparato per lei” Ap.12,14): non smette mai di far intravedere altre possibilità di stimolare nuovi progetti, di affidare compiti sempre nuovi.

L’”organizzazione della speranza” offre continue opportunità ai giovani cristiani di rendere ragione dei motivi della loro fiducia nella vita, della loro attiva costruzione del futuro. Più precisamente, essa crea il contesto giusto per poter raccontare la bella storia del Vangelo. Il Signore Gesù è la “pienezza della vita” (Gv. 1,14) che eleva la fragile condizione umana alla pienezza divina della vita data in abbondanza (Gv. 10,10). Il Padre che Gesù  ha fatto conoscere al mondo è un Dio che ama la felicità, che tiene alla sue creature, che fin da ora “tutto ci dà con abbondanza perché ne possiamo godere” (1 Tim. 6,17). La vita nuova di Cristo tocca l’essere umano intero e trasfigura i vari aspetti della vita. Risana, umanizza e fortifica. Riguarda anche il piacere del mangiare insieme, l’entusiasmo di fare un cammino comune, il gusto di lavorare e di apprendere, la soddisfazione di servire chi ha bisogno, il contatto con la natura, l’entusiasmo dei progetti comunitari, il piacere della sessualità come linguaggio dell’amore maturo e fedele.

La vitalità che il Cristo offre invita ad ampliare gli orizzonti, a liberarsi dai condizionamenti della società, a realizzare pienamente il caratteristico bisogno di “trasgredire” (inteso come “andare oltre”) degli adolescenti perché risponde pienamente al sogno della bell’età del vivere “liberi, indipendenti e felici”.

Il bene della speranza appare nella sua essenzialità di fronte alla morte, realtà che interroga ed inquieta molto gli adolescenti. La fine del tempo assegnato alla vita di ognuno elimina di fatto ogni possibilità materiale. Non si può avere speranza, dunque, se non in orizzonte di eternità. La vita felice richiede una condizione ulteriore: che sia piena di senso, che si apra alla speranza in una continuità oltre la morte, che faccia pregustare qualcosa della vita eterna. Solo l’amore osa tanto! La morte ha un nemico ed è l’amore. Chi ama fa vivere la persona amata, si ribella al pensiero della sua morte, continua ad amare e a sentirsi amato anche dopo la morte. In realtà solo l’amore rende bella la vita, la riempie di senso e di valore, la trasforma in un’opera buona. La speranza in una vita bella e buona poggia in definitiva su un’unica condizione: la generosità che rende capaci di amare e l’umiltà  che accetta di essere amato. Questa è anche la condizione per vivere il “comandamento nuovo” dell’amore che è il testamento e la testimonianza di Gesù che ha dato la sua vita liberamente e per amore.

L’organizzazione della speranza è dunque la vera forza della nuova evangelizzazione.

La pastorale giovanile deve trasformarsi in un vigoroso polo di irradiazione della speranza, deve portare una ventata di Spirito che rinnovi l’entusiasmo dell’evangelizzazione, deve costituire la  primavera  della comunità cristiana che libera dalla rassegnazione, dalla disillusione, dall’adattamento standardizzato.

Con stile ed eleganza (Evangelizzazione performativa)

Colui che fa battere il cuore

I media, di cui le nuove generazioni sono plasmate, non vanno intesi tanto come mezzi nuovi ed efficaci per l’annuncio della fede, ma devono essere considerati per quello che sono: “medium”, intense esperienze emotive dove comunicatori e uditori sono intrecciati in un unicum. Nell’annuncio del Vangelo non è sufficiente utilizzare i linguaggi dei giovani, occorre diventare medium di comunicazione, realizzare una comun-unione con l’“uditorio”, diventare una cosa sola con i giovani, praticanti e non praticanti, simpatizzanti e contrari.

La missione della “buona notizia” deve pensare in termini di legami, di feeling, di comunione, di simpatia. Ecco un’efficace definizione dell’evangelizzazione in mezzo ai giovani: “farsi tanti amici ed invitarli alla festa delle nozze” (cfr. Mt. 22, 1-14). Il kerigma è la trasmissione di questa esperienza.

Nella società mediatica è cambiato il modo stesso di intendere le parole: comunicare è sempre più trasmettere delle emozioni in un contesto ad effetto. La comunicazione riuscita è considerata come uno scambio di vibrazioni. Diventano importanti i linguaggi che producono effetti, che creano atmosfera: il suono della voce, il linguaggio delle immagini e delle parabole, dei lumi e delle luci, della musica e dei canti, la qualità del suono, le forme ed i colori, i ritmi e i gesti. Una fede troppo basata sull’insegnamento non può più essere proposta, se non diventa esperienza, anche emotiva, con tutti i rischi che questo comporta.

Questo vale anche per i giovani che già frequentano le comunità. Come i loro coetanei essi vivono momenti di disorientamento o di crisi religiosa, spesso non trovano il nesso tra gli insegnamenti ricevuti nella catechesi e la risposta da dare alle domande che li inquietano; a volte non sembrano avere neppure i parametri per capire l’importanza di ciò che è ritenuto indispensabile ad un’autentica vita cristiana (ad es. la centralità dell’eucaristia domenicale). Fanno fatica ad orientare le scelte e i significati profondi della loro esistenza alla fede che professano.

Questa nuova sensibilità, il primato dell’espressione di sé sulla riflessione e sul pensiero è, però, una sfida da raccogliere, per poter dare della fede un’immagine che conservi tutto l’incanto della bellezza e della verità, in una forma accessibile a tutti, anche ai semplici e ai poveri.

Nell’attuale stagione storica i giovani sono particolarmente sensibili alla presentazione del Vangelo come manifestazione della vera bellezza.

La missione in mezzo ai giovani è, dunque, anche questione di stile. Il profilo, la qualità e l’eleganza della forma non sono secondarie. Non sarebbe consona alla sua natura di segno, se l’opera della evangelizzazione se contenesse solo discorsi e idee, gesti e azioni, se mancasse della cura della forma. La pastorale giovanile coordina diverse attività e risorse: l’animazione, la musica, gli spettacoli, il gioco, le riunioni… utilizza locali, campi da gioco, teatri… Essendo aspetti “secondari”, dovendo, cioè, essere segno che rimanda a qualcosa di più grande, devono essere “perfetti”.  Quanto si riferisce al Vangelo dovrebbe essere “senza difetti”.

Non deve accadere di rendere ridicolo il Vangelo con la scarsa qualità di quanto lo circonda.

Come una stupenda cattedrale

La dimensione pubblica dell’evangelizzazione non è immaginata secondo i canoni mondani del consenso. E’ intesa, invece, secondo la teologia della presenza cristiana nel mondo. E’ come contemplare una bella basilica cristiana. La cattedrale è costruita sulla piazza sotto lo sguardo di tutti. Non s’impone, non costringe, crea una scena che fa piacere vedere; non è un baraccone, non è un grattacielo, è una chiesa.

È costruita per essere bella. Qualcuno, soffermandosi, si domanderà: “Se è così bella fuori, come sarà dentro?”. E scoprirà che, dentro, non è più questione di forme e di colori. Dentro c’è la presenza di una Persona. Lo splendore e l’incanto della facciata è solo un segno: non si fissa il dito che indica la luna, si guarda la luna...

Persuade il sostare a guardare, qualche cosa che ha stile ed eleganza. Non basta lasciarsi andare all’entusiasmo: l’ispirazione selvaggia o l’impeto del momento non diventano di per sé stile, non lasciano l’eco interiore di ciò che è giusto e bello, buono e degno. Lo Spirito è forza d’intelletto, è principio di sapienza: si diventa missionari attraverso il rigore del pensiero e della parola, lo scrupolo della razionalità e del senso critico.

La forza dell’ispirazione cristiana non si combina con la mediocrità e la banalità, ma richiede l’ambizione e l’orgoglio della precisione, del lavoro ben fatto, del discernimento: non tutto ciò che si presenta come religioso è genuino, non tutto ciò che si dice spirituale è cristiano. Testimonianza dei giovani cristiani è la magnanimità (forma affascinante dell’eroismo cristiano) che è l’esatto opposto della volgarità e della piattezza delle false trasgressioni: una grandezza dell’anima che rende puro e lucido l’occhio e lo fa capace di discernere ciò che vale e di vedere in ogni cosa bella una traccia della Grazia che libera e salva. Deve passare l’idea di un lungo lavoro su se stessi, della frequentazione assidua e organica dei professionisti della comunicazione, della formazione, dell’attitudine ad intendere la qualità spirituale delle persone e delle cose.

Nella “società liquida” che si è costruita non esiste più un discorso dominante, valido per tutti: ogni idea che pretende di essere universale si scontra inevitabilmente con una pluralità di prospettive, in un “gioco linguistico” parziale e complementare.

I linguaggi più adatti per coltivare il desiderio di Dio non sembrano più i concetti astratti e neppure il richiamo al dovere, ma le esperienze di incontro, di autenticità, di generosità, esperienze che danno senso e lasciare spazio al Mistero.

Rimane la domanda essenziale ed urgente: se la bellezza è un darsi del tutto nel frammento, come dal frammento arrivare al Tutto? Come si accende il desiderio di Dio? Cosa apre il soddisfacimento immediato dei bisogni alla dinamica infinita del desiderio?

I riti: bellezza ed interiorità emozionale per dire il vero

La forma normale e più efficace per l’annuncio del Vangelo è la comunicazione a tu per tu, il rendere ragione, nell’incontro e nel dialogo, dei motivi della propria speranza, il racconto di un’esperienza singolare che ha trasformato la vita, la testimonianza di un percorso di fede che continua.

Il tempo dedicato alla relazione personale è più importante di qualsiasi altra attività.

La testimonianza personale ha però bisogno di un contesto particolare che faccia sorgere le domande, che stimoli l’interesse, che crei comunione. L’annuncio del Vangelo, poi, presuppone una precisa esperienza umana, quella religiosa. Gesù non è un grande del passato, un sapiente o un filosofo, è il Signore, il Figlio di Dio. Non si può parlare del Vangelo senza nominare Dio e per dire Dio non sono sufficienti le parole, ci vogliono i simboli, i gesti ed i riti capaci di esprimere compiutamente la Verità della fede e di stimolare ed intercettare le attese più profonde dei partecipanti.

Non si può, dunque, parlare del Vangelo senza produrre simboli e riti.

 Incanto e disincanto

I riti non sono semplici atti di parola, sono testi più ricchi e complessi in cui s’intrecciano narrazioni, metafore, simboli e valori. Sono testi espressi con i gesti e la modulazione del corpo, dove l’interiorità emozionale partecipa con il suo particolare modo di condensare il tempo e di ricostruire lo spazio. Le parole che si pronunciano diventano così performative, capaci, cioè, di dare forma e rigenerare la percezione della realtà; parole rese essenziali e misurate, che non solo dicono ma compiono ciò che affermano.

Le ritualità sono, quindi, un potente laboratorio dove si producono allegorie per ridare incanto al mondo e viverlo come abitato da Dio. Sono anche il veicolo di esperienze umane fondamentali: nelle ritualità gli individui fondano i loro legami e costruiscono la comunità, i partecipanti definiscono le loro identità e la loro differenza, creano nuove norme e ne dissolvono altre, raccontano una storia su se stessi e a loro stessi. Sperimentano una potenza emozionale senza precedenti, in uno stato idealizzato d’umanità e in una comunità di eguali.

Ad un’osservazione attenta alla vita degli adolescenti la descrizione delle ritualità corrisponde, in un certo senso, a quanto essi indicano con un termine sintetico di “divertimento” e cercano di attuare nella loro socializzazione soprattutto notturna, lontano dal controllo degli adulti.

Ci si dovrebbe quindi aspettare dagli adolescenti una naturale predisposizione alla ritualità, dal momento che l’espressione del corpo raggiunge il loro il vertice della spontaneità (il corpo comunicativo, “aperto”) e la massima energia. Nelle ritualità religiose avviene, invece, per lo più l’opposto: l’estraneità e l’imbarazzo.

La ritualità umana, infatti, per diventare rito religioso richiede una vera iniziazione ed un efficace sostegno della cultura dell’ambiente umano.

Appartiene alla crisi delle ritualità religiose sia la diminuzione dell’adesione di fede, sia la deriva individualistica della devozione “fai da te”. Si osservano fatti evidenti: quanto meno si riesce ad entrare con partecipazione e convinzione nella liturgia della Chiesa, tanto più si sviluppa la religiosità popolare o esplode il sacro selvaggio; quanto più va in crisi il rito religioso tanto più prosperano e si sviluppano le ritualità commerciali.  La perdita di controllo delle religiosità emozionali, magiche e miracolistiche, il proliferare dei surrogati religiosi commerciali sono la controprova dell’esistenza di problemi irrisolti a proposito dei riti.

Le pratiche simboliche, infatti, possono anche fallire ed arrecare danno. In questo caso  si produce un disincanto del mondo, si diventa incapaci di produrre simboli, di generare significati, come condannati a vivere nell’età dell’artificio, un mondo di rappresentazioni  standardizzate, manipolate, mediate. Il disincanto non deve essere interpretato come perdita di sensibilità o di valori e meno ancora come prova che la complessità della società significhi necessariamente relativismo. Indica, piuttosto, una  pratica culturale non convincente, una performance simbolica fallita. Una vera delusione per gli adolescenti.

I riti al tempo dell’individualismo

E’in atto nella società una profonda trasformazione delle ritualità. La vita comunitaria che un tempo era molto articolata e conosceva un fitto repertorio di usanze, costumi, feste e appuntamenti, oggi si è come frantumata e impoverita, nell’individualismo vincente e nella crisi dei legami familiari e amicali. I riti sociali diventano spesso monotoni e ripetitivi, standardizzati. Lo scambio degli auguri o l'uso sociale dei regali e dei doni si sono commercializzati, perdendo molto del loro significato di gratuità,  imprevedibilità e misura. Si sono molto allentate le regole che imponevano il consumo dei pasti insieme e alla stessa ora e si sono drasticamente ridotti di numero i pasti di tutta la famiglia unita. Il pasto rituale è in declino a tutto vantaggio del pasto “industriale”, dove il valore del cibo e del gusto ha altri criteri. I rituali e le cerimonie sociali nei grandi eventi della vita (nascita, morte, matrimoni) sono finiti nel controllo del mercato che li ha standardizzati e uniformati. Solo ai bambini è permessa la spontaneità, per il resto prevalgono le formalità, agisce il controllo sociale. I campi da gioco sono un grande contenitore di ritualità collettive, dove si scatenano e si compongono emozioni, sentimenti, simboli. Entrato nel vortice della commercializzazione, lo sport diventa spettacolo individualistico, dove la competizione si scatena come aggressività diventando, negli stadi, un pericolo costante.

I riti non possono in alcun modo essere cancellati dall’esperienza umana; possono, invece, subire un radicale stravolgimento, una regressione selvaggia, come avviene spesso nelle discoteche per gli adolescenti o nei campi sportivi degli adulti e nei supermercati delle famiglie. Nel vivere sociale è possibile, infatti, osservare un paradosso: da una parte si abbandonano o si detestano i riti, dall’altra s’inventano continuamente nuove forme di ritualità.  Le ritualità continuano ad esistere: ogni volta che si vuole produrre un’intensificazione energica del vivere o liberare forti emozioni collettive si costruiscono cerimoniali e ritualità. Dopo un periodo di svalorizzazione del rito, si assiste, oggi, ad una certa riscoperta e riconoscimento della ritualità. Come immaginare, infatti, una convivenza umana senza riti? Le ritualità hanno accesso alle regioni più nascoste del mondo interiore. Il rito rende accessibile l’invisibile e l’indimostrabile, colma la distanza che separa gli individui, allontanandoli dalla loro interiorità emozionale e dai legami vitali. È come vincere con l’immaginazione, l’arte e la religione ciò che con la scienza continuamente fallisce; recuperare con l’estetica quello che si è perduto nel disorientamento dei costumi. 

Le attuali ritualità sociali sono, piuttosto, lo specchio di cosa diventano i riti al tempo dell’individualismo. Stadi, discoteche, palestre, supermercati ritualizzano il consumo, lo regolamentano e lo promuovono attraverso cerimoniali che ricordano spesso quelli religiosi. Gli sport sono vissuti da masse di persone come nuovi grandi riti sociali.  Concerti, meeting, spettacoli di massa producono un’effervescenza sociale ritualizzata. L’identificazione con gli atleti o con i divi dello spettacolo esercita un fascino e un’attrazione capaci di stimolare, per moltitudini di persone (non solo adolescenti), una passione che sostituisce l’interesse e la partecipazione alle grandi questioni della collettività e del suo futuro, al punto che la salvezza personale per alcuni consiste nell’assomigliare a loro. La moda, la danza, gli spettacoli di massa, che sono forme rituali, hanno un crescente successo, pari al valore che le società avanzate attribuiscono ai prodotti emozionali, alle espressioni ludiche, all’effervescenza della socialità. Ognuna di queste manifestazione vede la partecipazione degli adolescenti massiccia, attiva e convinta.

Nonostante il condizionamento commerciale invasivo la domanda di ritualità vera e sana è, però, in costante aumento. Cresce, per esempio, l’importanza degli anniversari. Non c’è oggi amicizia che non si accompagni ad un suo rituale. Si accolgono gli amici, si fanno regali, ci si ritrova in piazza, secondo copioni semplici ma precisi. Si ama la proprietà nel comportamento e nel vestire, per presentarsi più accettabili e dignitosi. Si riconosce che non giova mangiare abbondantemente ma sano. Si accettano diete e controlli, campagne  contro il fumo, rinunce ai superalcolici e a quanto nuoce alla salute. Avviene una modifica lenta del modo di pensare se stessi, una domanda di qualità anche delle ritualità umane. In questi ambiti gli adolescenti sono sempre più attivi, in base alle nuove sensibilità (per esempio al valore della salute) che l’evoluzione sociale stimola in loro.

  La complessa costruzione dei riti

Alla ritualità riuscita (umana o religiosa) contribuiscono diversi fattori: i testi e il ritmo del rito o della celebrazione, gli attori (l’animatore, il celebrante), i partecipanti (spettatori, osservatori, uditori), i simboli (segni, oggetti materiali, forme e colori, abiti e paramenti), lo scenario in cui essa si compie.

Il rito è tanto più convincente e performativo quanto meglio gli elementi sono combinati ed armonizzati. In questo caso i testi (come quelli sacri della liturgia) hanno piena attinenza alla vita, le ritualità esprimono direttamente la verità dei testi simbolici e sono collegati alla realtà sociale, la partecipazione è attiva, attori e spettatori si fondono in un unico e vibrano all’unisono. Nelle performance ritualizzate le credenze sono percepite come personali, vere ed immediate. I ruoli simbolici che attivano la partecipazione emergono direttamente, senza mediazioni. Attorno al rito si costruisce un’intera comunità, come avviene, per esempio, nel pasto rituale. Gli spettatori non si limitano a guardare ma partecipano, acclamano, cantano, gridano, piangono... I riti non si limitano a simbolizzare una relazione ad auspicare un cambiamento ma lo attualizzano, hanno un effetto diretto senza mediazione. I riti riusciti non sono mai innocui, per questo possono incutere paura, essere osteggiati dal potere (i riti cristiani sono stati proibiti per secoli)  o esposti al ridicolo per neutralizzarne la forza.

Nelle società più semplici testi e rituali sono naturalmente intrecciati e la religione coincide con la cultura. Nella complessità moderna, con la frammentazione dei cittadini, e i sottosistemi multipli ed autoreferenziali che ne derivano, con il pluralismo anche etico che le accompagna, gli elementi delle performance rituali si scombinano, producendo processi  incompleti. La ritualità non scompare ma si nasconde nel dilagare dei suoi surrogati.

Discoteche e stadi, supermercati e centri fitness, pub e bistrot si presentano come grandi templi del divertimento e dell’eccitazione collettiva ma non riescono comporre gli elementi della ritualità in un tutto coerente. I partecipanti sono ancora resi omogenei ma  il distacco dei significati e dei testi  dalla massa degli attori è evidente: l’epopea raccontata dal vocalist è virtuale, i “vip” (attori, campioni, artisti) si distinguono nettamente dalla massa, il divertimento è separato dalla vita (il tempo di loisir è vissuto come evasione), l’apparenza di intero, che rende l’azione simbolica rituale, diventa artificio e pianificazione (si svolgono eventi tecnologici o emozionali più che relazionali). L’azione performativa diventa mediatica, simulata, controllata, artificiosa, nel trionfo della razionalità strumentale (come nei mondi Macdonald).

E’ la performance che diventa culto e non il rito che si fa performativo.

Le ritualità commerciali sono un succedaneo dei riti, non la loro continuazione in forma nuova. Sono un surrogato dei riti religiosi, possono provvisoriamente riempirne il vuoto ma non sostituirli. La “funzione” svolta, infatti, è la stessa del rituale sacro: produrre un’identificazione psicologica forte, stabilire una connessione emozionale con l’audience (il receptionist, l’animatore), costruire una certa relazione tra attore e testo (per opera del dj e vocalist), creare le condizioni per diffondere significati culturali (fidelizzare l’utenza), generare miti per simulare l’effervescenza collettiva di cui l’individualismo è rimasta orfana. Del tutto diverso è però il risultato.

Il successo delle performance della ritualità simulata dipende dall’abilità degli attori nel convincere i partecipanti circa la verità della performance, nel trasformare la veracità in affidabilità, con tutte le ambiguità che ciò comporta. L’efficacia rituale esige sempre, infatti, che attori ed osservatori condividano la validità del contenuto della comunicazione simbolica ed accettino l’autenticità dell’intenzione dell’altro.

I riti religiosi nel mondo secolarizzato

La complessità sociale rende difficile oggi collegare i testi alla vita. Anche in gruppi omogenei le performance possono apparire vere per alcuni, inautentiche per altri.

In epoca di diffusa secolarizzazione, nella complessità culturale e nelle contraddizioni tipiche della società pluralista, l’integrazione dei gruppi e della collettività avviene ancora attraverso comunicazioni simboliche. Le performance sociali devono, però, tendere ad armonizzare gli elementi che le costituiscono per diventare efficaci: solo attraverso processi integrativi si crea il senso dell’identità condivisa (così funziona la socializzazione degli adolescenti quando l’indipendenza è cercata nella fusione del gruppo). Le credenze mantengono, quindi, la loro centralità ma assumono un ruolo nuovo. La società complessa e tecnologica non produce solo disincanto ma inventa costantemente anche performance simboliche. Il processo di razionalizzazione non è mai completamente realizzato.  Le società più razionalizzate, infatti, sono anche quelle più alla ricerca d’incanto e di mistica. Ne è un segno il vasto ritorno al linguaggio del mito (un esempio per tutti è il successo multimediale di Harry Potter che affascina non solo i bambini ma anche gli adolescenti!). Sotto questa potente spinta culturale il discorso religioso tende oggi a codificarsi sull’espressività delle emozioni e dei sentimenti, sul linguaggio simbolico evocativo piuttosto che su quello logico, percepito troppo contiguo alla tecnologia imperante che riempie ed ossessiona la vita.

Si avverte il bisogno di esperienze liberanti, di emozioni sacre per dare un nuovo respiro alla vita. L’accusa che gli adolescenti rivolgono alle celebrazioni liturgiche non è, infatti, che esse siano alienanti ma che non tocchino il cuore (e il corpo) e non diano emozioni, che siano noiose. Il mito, invece, intercetta il sentimento e dischiude nuove dimensioni della realtà (una vera modificazione dello stato mentale).

Neppure Gesù utilizzava il linguaggio logico per parlare di Dio, ricorreva piuttosto alle parabole e alle metafore (“non parlava loro che in parabole”) e lo faceva in modo efficace, non solo con il linguaggio ma anche con i fatti. Era una parola che toccava anche il corpo fino a trasformarlo. 

La bellezza e l’emozione per parlare di Dio, non sono tuttavia esenti da rischiose ambiguità. Da sole restano un’esperienza rappresentativa che, diversamente dalla Parola della Rivelazione, non suscitano un appello, non chiedono un’adesione della vita concreta, si limitano ad una suggestione estetizzante. Gesù invece parlava di Dio come di uno che chiama ed interpella: un appello decisivo ed urgente che stabilisce una differenza nella vita e nella qualità del tempo: “cambia la tua vita e credi al Vangelo, adesso è il tempo” (Mc. 1,15).

La ritualità performativa (che compone tutte le dimensioni del rito) sostiene proprio questo difficile passaggio che il linguaggio cristiano chiama conversione e intende come sacrificio.

Per resistere al dominio del mercato (che è il vero problema della degenerazione dell’adolescenza), per orientare eticamente le scelte della vita, per superare la diffidenza e imparare a stare insieme, per rinsaldare i legami e contrastare l’individualismo indifferente di oggi, le ideologie e gli inviti morali sono insufficienti: servono i riti, i riti della fede. Nella ritualità, infatti, si radicano simboli, dai simboli nascono i significati: le verità ed i valori per contrastare la crisi dei legami interpersonali della società evanescente. Le ritualità non si limitano a celebrare, di volta in volta, uno specifico evento o ad attualizzare qualche simbologia. Confermano il senso che si attribuisce alla vita, l’ordine che rende abitabile il mondo. Costituiscono, quindi, i modelli della fiducia di base. Insegnano ad agire in maniera ordinata per vivere il mondo come un tutto dotato di un senso.

I riti religiosi generano la speranza (non soltanto la organizzano!)

La tendenza ad abbandonare i riti o a stravolgerli emotivamente è naturalmente amplificata dalla scarsa cura della celebrazione, che, di fatto, manca di investire le esperienze della quotidianità. La liturgia, celebrata come si deve, apre, invece, la speranza a reali alternative al primato economico dell’utile, produce il riscatto e la critica del tempo della prestazione, sostiene la fede nelle promesse di Dio e nei beni escatologici (quelli che riguardano il futuro e fondano l’amore).

Il discorso su Dio, terreno indispensabile per introdurre l’incontro con il Signore Gesù, ha bisogno di una polifonia di linguaggi e di metodologie: la forma narrativa, innanzitutto, per parlare del Vangelo in relazione a racconti importanti della vita, la profezia come interpretazione del senso degli eventi e delle condizioni della società, le esigenze etiche come conseguenze degli eventi raccontati, le domande sul senso e non senso della vita, la ricerca della felicità…

La vita quotidiana cui deve fare riferimento la proposta dell'evangelizzazione è, però, definita dalla cultura del tempo, dalle sue sensibilità e contraddizioni. Per realizzare il loro obiettivo di testimonianza e di annuncio, gli eventi di evangelizzazione rivolti agli adolescenti nelle loro aggregazioni spontanee, devono diventare anche performance culturali che i partecipanti vivono come affidabili ed autentiche. Performance culturale è il processo sociale in cui degli “attori” (nell’evangelizzazione i missionari) dispiegano per gli altri i significati della loro vita (nell’evangelizzazione l’esistenza che cambia in conseguenza all’incontro con Gesù, la missione) e costituisce un ambiente umano opportuno sia per l’evangelizzazione prima, sia nella cura della fede (i Sacramenti) poi.

La celebrazione dei Sacramenti presuppone sempre la fede. La liturgia è fonte e culmine della vita cristiana ma non può sostituire il kerigma, altrimenti rischia di diventare pura ricerca emozionale. Teatro, poesia, produzione  musicale, danza, immagine, multimedialità sono espressioni creative che, liberando le persone dalla materialità del consumismo superficiale, si prestano a rivelare la Bellezza e l'Amore. Performance che evangelizza è quella che non ricerca (anzi schiva) la ribalta dell’immagine e della gratificazione individuale ma, nella competenza artistica e nella fedeltà all’Evangelo, punta al cuore delle persone in un incontro che comprende anche la parola ma comunica soprattutto attraverso il linguaggio estetico ed emozionale. Garanzia indispensabile per la riuscita della performance pubblica è la capacità di mettersi sulla lunghezza d’onda degli adolescenti, comunicando con la loro corporeità, accogliendo i loro gusti, intercettando la loro domanda di religiosità al di fuori degli schemi già preconfezionati per orientarla all’incontro con il Vangelo. L’autenticità consiste in una relazione in cui le persone agiscono senza artificio o secondi fini, senza manipolazione, né suggestione, né plagio, ma spontaneamente. Nella società della comunicazione mediata una proposta è considerata vera non tanto quando è razionale e motivata quanto piuttosto se riesce a produrre un effetto di fusione per “l’audience”, quando si crea un flusso emozionale dove simboli e referenti diventano uno. Nella frantumazione dei legami e nell’insicurezza affettiva dell’individualismo, questo tipo di performance produce una comunione di massa che supera la frammentazione e fa sentire vive le persone. Le esperienze di flusso (musica, spettacolo, animazione, drammatizzazione delle testimonianze di vita, ma anche sport, gare, meeting, sagre…) sono una specie di ricovero temporaneo dei processi rituali di cui la società tecnologica è divenuta sempre più incapace.

L’evangelizzazione è la proclamazione della morte e risurrezione di Gesù, fatta sotto l'azione dello Spirito Santo. Non è quindi una “predica” e neppure una conversazione ma un evento. Incontra le persone (gli adolescenti) le tocca e le riguarda, le interpella e le convince solo se (per quanto possa il contributo umano all’opera dello Spirito) diventa una “performance culturale” che apre la strada alla ritualità religiosa (che richiede in ogni caso un’iniziazione specifica). Non va dimenticato che nell’esperienza sorgiva della Chiesa, il giorno di Pentecoste, lo Spirito ha operato all’interno di una performance culturale di grande effetto.

Nell’evangelizzazione riuscita il messaggio diventa azione, il Vangelo si fa cultura in una rappresentazione collettiva dove ognuno si sente “nativo” nella lingua e nella cultura dell’altro. E’ nell’azione performativa che si supera la frattura tra il vangelo e la cultura, tra la fede e la vita, tra la verità e la veracità, tra l’autenticità e l’imitazione.

A cosa mira tutto questo dispiegamento di pensiero, di energie, di creatività per non perdere alcuna delle incredibili occasioni che i tempi nuovi offrono e per continuare a proporre in ogni modo il Vangelo, “in ogni occasione opportuna e non opportuna” (2Tm. 4,2)?

Ad un solo obiettivo: che appaia chiaramente che Gesù è stato un capolavoro di vita umana, ha amato l’amore, la vita, la felicità. E’ stato pienamente “libero, indipendente e felice”. Oggi si è interessati a Gesù solo se si riesce a percepire che la sua vita è stata bella.

Ci vuole qualcuno che racconti che aver incontrato lui è stato proprio “una bella storia”. E che sia credibile.